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Dario Fo nasce a San Giano, un paesino presso
il Lago Maggiore in provincia di Varese. (Da “Il paese dei Mezaràt”, 2002) “Tutto
dipende da dove sei nato, diceva un grande saggio. E, per quanto mi riguarda, forse
il saggio ci ha proprio azzeccato. Tanto per cominciare, devo dire grazie a mia
madre, che ha scelto di partorirmi a San Giano, quasi a ridosso del Lago Maggiore.
Strana metamorfosi di un nome: Giano bifronte, antico dio romano, che si trasforma
in un santo cristiano, per di più presunto protettore dei fabulatore-comicos. In
verità non fu mia madre a scegliere, ma le Ferrovie dello stato, che decisero di
spedire mio padre a prestare servizio in quella stazione. Sì, mio padre era un capostazione,
seppure avventizio. (…) Io venni al mondo fra un omnibus e un “merci”, in quella
fermata sussidiaria a quattro passi dal Lago (ANTELACUS, è scritto su un reperto
romano). Erano le sette del mattino quando mi decisi a far capolino fra le gambe
di mia madre. La donna che fungeva da levatrice mi tirò fuori e mi sollevò come
fossi un pollo per i piedi. Poi velocissima, mi assestò una gran pacca sulle natiche…
urlai come un segnale d’allarme. In quell’istante transitava l’omnibus delle sei
e mezzo… che arrivava naturalmente in ritardo. Mia madre ha sempre girato che il
mio primo vagito aveva superato di gran lungo il fischio della locomotiva.”
Completano i suoi dati anagrafici il padre Felice, di fede socialista, capostazione
e attore in una compagnia amatoriale, la madre Pina Rota, donna di grande fantasia
e talento (negli anni '70 pubblicherà un libro biografico di grande successo del
mondo contadino dove era cresciuta: "Il paese delle rane" edito da Einaudi), il
fratello Fulvio e la sorella Bianca, oltre ad un nonno materno agricoltore in Lomellina,
presso il quale il piccolo Dario andrà a trascorrere i primi periodi di vacanza
e dal quale apprende, seduto sul grande carro al suo fianco, i rudimenti del ritmo
narrativo (vedi “Il Paese dei Mesaràt”, Edizione Feltrinelli).
Il nonno girava per i borghi vendendo verdura prodotta in proprio con un grande
carro trainato da un cavallo e, per attirare i clienti, raccontava favole grottesche
nelle quali inseriva la cronaca dei fatti avvenuti nel paese e nelle zone limitrofe.
Questa attività di giornale satirico parlato gli era valso il soprannome di "Bristìn"
(seme di peperone).
L'infanzia di Fo si svolge fra i traslochi di paese in paese, al seguito dei trasferimenti
che la Direzione delle Ferrovie impone al padre.
Luoghi diversi, ma un medesimo ambiente culturale, dove il ragazzo cresce alla scuola
della narratività non ufficiale, ascoltando i maestri soffiatori di vetro e pescatori
del lago, che nelle osterie, nel porto e nelle piazze del paese raccontavano favole
paradossali e grottesche, della tradizione orale dei "fabulatori", nelle quali già
affiorava una pungente satira politica.
Nel 1940 va a Milano (pendolare da Luino) per studiare all'Accademia di Brera. In
seguito (dopo la guerra) si iscrive ad Architettura al Politecnico.
Durante la guerra, Dario, richiamato sotto le armi nella Repubblica di Salò, riesce
a fuggire e trascorre gli ultimi mesi prima della liberazione nascosto in un sottotetto.
I genitori partecipano alla Resistenza, il padre, responsabile del CLN della zona,
organizzava il passaggio clandestino in Svizzera di ricercati ebrei e prigionieri
inglesi fuggiti; la madre curando i partigiani e i gappisti feriti.
Al proposito esiste una testimonianza del partigiano medaglia d’oro della Resistenza,
Leo Wachter, partigiano, ebreo perseguitato che ricorda come durante la guerra più
volte si sia rifugiato presso la famiglia Fo a Porto Valtravaglia.
Una volta, ferito gravemente ad una gamba, venne medicato e assistito dalla madre
di Dario.
(Da “Il paese dei Mezaràt”, 2002)
“Quando penso a quel periodo fra il ’44 e il 45 mi sembra incredibile di aver vissuto
tante storie, tutte ammucchiate in così breve tempo. Situazioni grottesche, tragiche,
spesso vissute come dentro un incubo. Ancora oggi nel sonno mi capita di ritrovarmi
a ripetere a tormentone lo sconquasso dei bombardamenti. Mi riappaiono le tradotte
con i carri-merce dentro i quali mi sono richiuso, le fughe, le diserzioni, la polizia
che mi viene a ricercare al paese… e ogni volta vivo l’angoscia di venir catturato
e sbattuto in galera. (…) I quaranta giorni di scuola trascorrono a una velocità
incredibile. Aspettiamo con ansia e trepidazione il giorno del lancio, ma all’improvviso
il capitano ci avverte che ql campo d’aviazione di Vengono non ci sono più aerei
disponibili (…) ci restano pochi gironi e poi verremo spediti chissà dove, forse
al fronte, forse costretti a partecipare al rastrellamento dalle parti di Cirié,
in Piemonte. La sera stessa con Marco decidiamo che è tempo di sloggiare immediatamente.
Approfittiamo della libera uscita, corriamo alla stazione ferroviaria e montiamo
sull’ultimo treno che raggiunge il lago e lo costeggia. Mi sono fabbricato altri
due permessi falsi. Arrivati a Laveno ci salutiamo… io scendo a Porto. A casa trovo
tutta la famiglia; espongo subito la mia situazione: sono di nuovo disertore, ma
stavolta rischio di più. Mio padre ha un amico che abita a Caldé, un collega con
il quale ha organizzato la fuga di molti perseguitati; è già d’accordo con lui:
il ferroviere mi ospiterà nel sottotetto di una vecchia casa semi abbandonata di
sua proprietà. E’ un mezzo rudere infroppato quasi completamente dentro un bosco
nell’entrovalle. Per raggiungere il solaio c’è solo una scala a pioli; una volta
lassù la dovrò ritirare e nasconderla nel sottotetto. Nessuno, nemmeno mia madre,
sa di quel nascondiglio. (…) Trascorsi più di un mese là dentro, senza mai uscire.
(…) Credo fosse un martedì, c’era un sole davvero splendente, in tutta la valle
le piante a perdita d’occhio erano fiorite. Sento dei botti lontani, una dietro
l’altra cominciano a suonare le campane di tutti i campanili intorno. Il vento è
a mio vantaggio, mi arrivano gli sbattoni di campana fin da oltre il lago. Mi infilo
nel lucernario e salgo in piedi sul tetto, da cui scorgo la piazza di Caldé: c’è
una banda che spernacchia a perdifiato e ragazzi, donne e bambini che corrono di
qua e di là. Sento urla festose di gente che sale verso il rudere, riconosco subito
Alba con le sue amiche, il ferroviere e altri abitanti della valle. “E’ finita!”
ripetono a gran voce. “La guerra è finita” Dopo la liberazione Dario riprende gli
studi all'Accademia di Brera a Milano, sempre facendo il pendolare dal Lago Maggiore,
e frequenta contemporaneamente la facoltà d'architettura del Politecnico che più
tardi abbandonerà a pochi esami dalla laurea.
Tra il '45 e il '51 si dedica alla scenografia e alla decorazione teatrale e lavora
come aiuto architetto nello studio Chiuti.
In quel periodo si esercita nella fabulazione. I suoi racconti paradossali hanno
successo presso gli studenti dell’Accademia di Brera. Egualmente le sue esibizioni
suscitano divertimento e applausi da parte di un pubblico inusuale, cioè i compagni
di viaggio che affollano i treni che dal Lago Maggiore scendono fino a Milano e
viceversa. Dopo un paio d’anni si trasferisce con la famiglia a Milano. Per i giovani
Fo è un periodo di furibonde letture, in cui Gramsci e Marx si alternano con i romanzieri
americani e con le prime traduzioni di Brecht, Majakovskij, Lorca. In quel dopoguerra
esplode una vera e propria rivoluzione teatrale, soprattutto grazie alla nascita
dei Teatri Stabili, il più famoso dei quali è senz’altro il Piccolo di Milano, che
sviluppano fortemente l'idea di "scena nazional-popolare". Fo è coinvolto da quell'effervescenza
e si dimostra un insaziabile spettatore teatrale, costretto il più delle volte,
per motivi economici, ad assistere in piedi alle rappresentazioni facendo parte
della claque. Mamma Fo, per aiutare il marito a far proseguire gli studi ai tre
figli, si ingegna a fare la camiciaia. E’ una donna molto aperta e ospitale. Nella
sua casa spesso ci sono gli amici dei figli, tra cui: Emilio Tadini, Alik Cavalieri,
Bobo Piccoli, Vittorini, Morlotti, Treccani, Crepax, alcuni di questi già famosi
a quel tempo. Durante gli studi d'Architettura, Dario lavora come decoratore e aiuto
architetto, e gli amici lo sollecitano spesso ad intrattenerli con le fabulazioni.
Il successo di quei racconti è tale per cui viene addirittura invitato ad esibirsi
durante feste e serate in locali popolari. Nell'estate del 1950 Dario si presenta
all’attore Franco Parenti con un testo scritto da lui, la storia di Caino e Abele,
una satira dove Caino, “poer nano” (povero cocco, affetuosa espressione lombarda),
è un tontolone tutt'altro che cattivo, solo che, “poer nano”, ogni volta che cerca
di imitare lo splendido Abele con i riccioli d'oro e gli occhi azzurri, gli va malissimo:
subisce disastri uno dietro l'altro finché, impazzito, uccide lo splendido Abele.
Franco Parenti invita Fo a far parte della sua Compagnia di cui è impresario Carlo
Mezzadri, marito di Pia. Dario inizia così a recitare nella rivista estiva diretta
da Parenti, in questa occasione, si verifica il primo "incontro" di Dario Fo con
Franca Rame, grazie ad un suo ritratto fotografico esposto in casa della madre di
lei, a Varese, dove era capitato con Pia.
Ne rimane fortemente turbato!
E' già il tempo della corruzione edilizia, Fo, disgustato dall'ambiente, decide
di abbandonare Il Politecnico, gli studi di progettazione e i cantieri edilizi.
Vive una situazione di forte crisi, tanto che decide di abbandonare anche l’università.
Si dedica totalmente al teatro, quasi come terapia alla delusione che lo ha assalito.
Parenti riforma compagnia con “Le tre sorelle Nava” (vedette celeberrime del tempo),
impresario ancora Carlo Mezzadri per uno spettacolo di varietà estivo che propone
a Fo la scrittura, lui accetta.
E fra tutti i giovani attori, chi si trova davanti? Proprio lei, la ragazza della
foto, che l’aveva turbato mesi prima:
Franca Rame.
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